
C’è un dettaglio che molti hanno ignorato, un frammento minuscolo se confrontato con l’enormità dell’intero caso, eppure capace di ribaltare tutto. Una parola breve, appena accennata in un messaggio che doveva sembrare innocuo, un saluto affettuoso o forse qualcosa di più. Kang, tre lettere che per anni sono rimaste chiuse in un cassetto mentale, come se non valesse la pena farci caso. Ma oggi quelle tre lettere si ripresentano con la forza di una confessione indiretta. Non solo un codice affettivo, forse un segnale,
forse un ultimo richiamo prima del buio. La mattina del 14 dicembre 2021 Liliana Resinović esce di casa e svanisce come se l’aria l’avesse inghiottita. Nessun rumore, nessuna richiesta d’aiuto, nessuna telecamera che la immortala, un vuoto pulito, innaturale. E mentre tutti parlano di strani avvistamenti, passi nel boschetto, racconti confusi, c’è una persona che in quel momento vive un interrogatorio lungo 5 ore. Claudio Sterpin, 86 anni, il volto scavato dalla stanchezza e dagli anni, ma lo sguardo
sorprendentemente fermo. Lo hanno bombardato di domande, costretti a rivedere ricordi vecchi di decenni, cercato falle, contraddizioni, esitazioni. Ma lui, con quella calma ostinata di chi ha deciso che non ha nulla da perdere, continua a ripetere che la sua versione non cambierà mai. Esce dal tribunale con il bastone che picchia secco sull’asfalto. Non guarda nessuno, non concede un sorriso né una parola, cammina come chi ha appena combattuto un duello sottile, invisibile. Gli chiedono perché non
cede, perché non aggiusta i ricordi, perché non si difende con più prudenza. Sterpin tira dritto, dice che la verità ce l’ha già detta, che è sempre la stessa, ma le parole che non pronuncia raccontano molto di più. raccontano di una fragilità nuova, di un uomo che forse si sente vicino a un momento decisivo. Dall’altra parte c’è il marito di Liliana, Sebastiano Visintin. Arriva al tribunale con la bici a mano, un gesto semplice, quasi asciutto, che però sembra dire molto. Entra senza voltarsi,
evitandosi perfino il conforto dello sguardo alzato verso chi lo osserva. mostra un silenzio pesante, non ostile, solo insondabile. Un uomo che vive al margine di un dolore, che non spiega, che non commenta, che non vuole condividere. E intanto il boschetto dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste torna al centro dell’indagine. Un luogo freddo, umido, impregnato dell’inverno del gennaio 2022. Foglie marce, terreno scivoloso, aria gelida che taglia la pelle, un posto che non promette niente
di buono e che ora è diventato quasi un simbolo, il simbolo di una storia che non si lascia riscrivere. Chi ha portato Liliana lì, in quella notte dove il silenzio sembrava più pesante del buio stesso, conosceva quel posto come le tasche dei propri pantaloni. Non ha esitato, non ha avuto paura del gelo o delle ombre. Gli esami dei tecnici non lasciano spazio alle interpretazioni più comode. L’antropologa forense ha demolito l’ipotesi del suicidio. Quel corpo non racconta un gesto disperato,
racconta un’azione decisavenuta dall’esterno, un impatto, un passaggio di mani, una volontà che non è la sua. I botanici trovano rami spezzati in modo innaturale, tracce di un peso trascinato nella notte, impronte parziali che non appartengono agli investigatori e piccoli dettagli minuscoli quasi invisibili, come frammenti che quando messi insieme danno forma a un quadro che nessuno vuole guardare direttamente. Durante l’incidente probatorio si scava non solo nella scienza, ma anche nella
storia personale dei protagonisti. Le foto di sterpine e Liliana vengono analizzate come reperti, non come ricordi. Ce ne sono tante, più di quelle che molti immaginavano. Carnevale del 2003, lui vestito d’aviatore, lei con un abito orientale elegante e un sorriso senza spigoli. Capodanno 2013 a Barcola, dopo un tuffo gelido fatto per scherzo. risate, vicinanza, confidenza, un legame che appare naturale, morbido, quasi intimo, ma sempre con quell’eleganza che non urla niente e non mostra troppo. E
poi saltano fuori cinque hard disk conservati da Visintinamin per anni, catalogati, archiviati, alcuni criptati, alcuni con file cancellati in modo non definitivo. Sono passati per le mani di un amico che li ha custoditi come se fossero parte di un’eredità da non toccare. Dentro ci sono centinaia di documenti, foto, messaggi, registrazioni, materiale che potrebbe cambiare tutto o forse complicarlo ancora di più. La relazione tra Liliana e i due uomini si svela strato dopo strato. Una donna riservata, affettuosa ma introversa, un
marito lento, metodico, abituato alla routine, un amico anziano, energico, nostalgico, affamato forse di attenzione o forse solo di una compagnia che sentiva mancare altrove. Gli avvocati scrutano ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola detta anni prima. Scavano nelle dinamiche familiari, nelle vecchie abitudini, nelle mancanze. C’è un punto esatto in cui le indagini smettono di essere un semplice esercizio di ricostruzione e diventano un viaggio dentro l’ombra. Nel caso Resinović, quel punto coincide con l’ingresso nel
boschetto dell’ex ospedale psichiatrico. La scena silenziosa in cui ogni elemento sembra urlare qualcosa che nessuno vuole davvero ascoltare. Gli investigatori ci tornano più volte, quasi ossessionati, perché ogni volta qualcosa stona. Il terreno non racconta un passaggio naturale, racconta un movimento forzato, racconta scarpe che non si fermano, mani che trascinano, pesi che vengono appoggiati e rialzati. Racconta una notte che non vuole essere dimenticata. Le prime perizie parlano chiaro, anche
se molti hanno tentato di attenuarne la portata. La disposizione del corpo non è compatibile con una scelta personale. Le buste, gli oggetti, la posizione delle gambe, il modo in cui il corpo è ravolto. Tutto indica una messa in scena, qualcosa che doveva sembrare spontaneo, ma che non lo è mai stato. Qualcuno ha cercato di raccontare una storia diversa, una storia più semplice, una storia che facesse meno rumore, una storia che non costringesse nessuno a guardare il lato più buio di un legame.

Secondo l’antropologa, il terreno e i resti non mentono. Le ossa portano segni di compressione anomala. I tessuti suggeriscono una tempistica diversa da quella diffusa all’inizio e i primi referti botanici parlano di spostamento notturno, di un passaggio recente, di un corpo che non era stato in quel punto per tutto il tempo che qualcuno aveva voluto far credere. Un dettaglio pesante come un macigno in tribunale, mentre gli esperti spiegano tutto con una freddezza quasi chirurgica, Sterpin rimane seduto
con la schiena dritta, non reagisce, non si muove, non si difende con rabbia né con fastidio, rimane lì come chi ha già metabolizzato l’idea che ogni parola potrà essere usata contro di lui. Al contrario, Visintina appare più rigido, più trattenuto. ogni tanto guarda verso la porta come se volesse uscire per respirare aria meno densa, ma resta, ascolta e non dice una parola. Le foto conservate negli anni diventano quasi più importanti dei referti. Mostrano un legame che nessuno ha mai saputo
definire con precisione: complicità, affetto, forse anche tenerezza. Non è la solita amicizia tra una donna sposata e un uomo tanto più anziano. Non è nemmeno una relazione classica. È qualcosa che viveva nelle pieghe del non detto e il non detto, quando esplode fa molto più rumore delle dichiarazioni ufficiali. Molti si chiedono perché quei cinque hard disk fossero stati tenuti da Visintin come reliquie da non toccare. Alcuni file sono stati criptati, altri cancellati, altri messi in cartelle senza senso. C’è chi pensa che Liliana
avesse iniziato a preservare ricordi, conversazioni, piccoli frammenti di vita che stava analizzando da sola, come se volesse tenere traccia di tutto, come se avesse capito che stava entrando in un territorio pericoloso. Le indagini entrano poi nel territorio più scivoloso, quello delle relazioni emotive. Gli investigatori scandagliano i messaggi privati, ne emergono conversazioni brevi ma intense, note vocali tagliate, frasi lasciate a metà, una in particolare cattura l’attenzione. Ci vediamo domani, una frase
insignificante per chiunque, ma inquietante sedetta da una donna che pochi giorni dopo scompare e viene ritrovata senza vita. Il clima attorno al caso si fa ogni giorno più pesante. Il pubblico segue ogni notizia come se stesse assistendo a un processo collettivo, ma la verità non si lascia afferrare. C’è troppa nebbia intorno ai movimenti di quel giorno, troppi dettagli che sembrano costruiti su misura, troppi silenzi. Le difese delle due parti iniziano uno scontro tecnico serrato. Gli avvocati di Visintin
chiedono una perizia totale, una revisione di tutto. Vogliono nuove analisi degli abiti, dei terreni, dei telefoni. Vogliono sapere l’ora esatta della morte, cosa è impossibile con il corpo trovato in quelle condizioni. Vogliono capire chi ha mosso Liliana e in quale momento. Chiedono di chiarire se ci siano state altre presenze nel boschetto. presenze rimaste fuori dai riflettori fino a oggi. Dall’altra parte gli avvocati della famiglia di Sterpin cercano di mantenere una visione lineare
del suo racconto. Parlano della sua coerenza, della sua buona fede, del fatto che non ha mai cambiato versione nemmeno sotto pressione. Ma la domanda rimane sulla bocca di tutti. È coerenza o è qualcosa che aveva ripetuto tante volte da averla trasformata in verità personale? E poi emergono nuove testimonianze che fanno tremare il quadro generale. Una persona dice di aver visto Sterpin e Visintin discutere il giorno dopo la scomparsa di Liliana. Non viene riportato nei verbali ufficiali. Un’altra testimonianza chiama
in causa il custode del boschetto che avrebbe notato movimenti strani nella settimana precedente. Ombre, passi, figure che entravano e uscivano senza motivo. A quel punto, nelle indagini entra un elemento che nessuno aveva considerato seriamente. I biglietti e le note lasciate da Liliana. Piccole frasi annotate qua e là. Pensieri che, letti con gli occhi di oggi, sembrano quasi un tentativo di ricostruire qualcosa nascosto sotto la superficie. Nessuno ha mai trovato il suo diario e forse proprio il diario era ciò che qualcuno
non voleva venisse letto. C’è un attimo preciso in cui il caso Resinovic smette di essere un mosaico incompleto e diventa un labirinto. È quando le testimonianze non ufficiali iniziano a combaciare tra loro in modi che nessuno aveva mai analizzato. Quando il non detto di anni improvvisamente si collega ai dettagli tecnici delle perizie, quando le crepe diventano talmente evidenti che anche chi non voleva vedere è costretto a fermarsi. Una di queste testimonianze arriva da una voce anonima che parla di una discussione accesa tra
Visintin e Sterpin il giorno dopo la scomparsa. Una lite soffocata, un confronto teso. Nessuno ha mai confermato, nessuno ha mai negato. Eppure l’immagine rimane sospesa come un’ombra che allunga il suo profilo su tutto ciò che accadrà in seguito. Se davvero c’è stato un confronto, perché non è stato riportato? Perché si è preferito far scorrere la polvere sopra quell’informazione? Un altro elemento inquietante arriva da chi frequentava l’area intorno al boschetto. Il custode parla di figure
che si muovevano di notte, giorni prima del ritrovamento del corpo. Movimenti discreti, lenti, quasi furtivi, ombre che non avevano motivo di essere lì. Nessuno ha mai dato un nome a quelle figure, ma il loro ricordo continua a tornare nei verbali informali, come un brivido che non si riesce a ignorare. Le fotografie di Liliana, trovate negli hard disk, sembrano inoffensive a prima vista. Immagini di giornate normali, ma viste una dopo l’altra, costruiscono una narrazione emotiva precisa. Ci sono foto
in cui il suo sorriso è pieno, naturale, altre in cui appare distante, stanca, come se portasse un peso che non riesce più a nascondere. E più ci si avvicina alla data della scomparsa, più quello sguardo cambia, sparisce la leggerezza, sparisce l’ingenuità, rimane una tensione sottile, quasi impercettibile, ma continua. Ci sono poi le testimonianze sulla sua vita privata, amici che parlano di confidenze vaghe, mai esplicite. Una frase ricorrente, devo mettere ordine. Nessuno capiva cosa intendesse, ma oggi quella frase suona
come un avvertimento, come se Liliana avesse iniziato a prepararsi a una svolta che sapeva di non poter evitare, una svolta che non ha fatto in tempo a compiere. Gli investigatori analizzano ogni messaggio, ogni cartella. ogni file. Nei telefoni sequestrati compaiono conversazioni di pochi secondi, messaggi cancellati, screenshot salvati senza spiegazioni, piccoli indizi che suggeriscono che Liliana volesse conservare tracce di momenti specifici, come se avesse paura che qualcosa le venisse tolto o come se temesse che un
giorno avrebbe avuto bisogno di dimostrare ciò che stava vivendo. Il caso cambia direzione quando si parla della dinamica della morte. La ricostruzione forense non lascia spazio a interpretazioni accomodanti. Qualcuno ha agito con una determinazione fredda, ha trasportato il corpo in modo metodico, ha disposto gli oggetti con un ordine che non appartiene alla confusione di un gesto disperato. Ha costruito una scena, la scena di un allontanamento volontario, ma ogni dettaglio tradisce quel tentativo. Le
perizie botaniche raccontano che il terreno sopra Liliana non era stato mosso nei giorni successivi alla sua scomparsa, il che significa che qualcuno l’ha collocata lì molto più tardi. Un deposito tardivo, una messa in scena studiata. Questo elemento pesa come il piombo perché smentisce le prime versioni diffuse dalla difesa e apre un ventaglio di domande che nessuno avrebbe voluto affrontare. Chi aveva accesso a quel boschetto senza farsi notare? chi conosceva i percorsi più nascosti, chi sapeva come muoversi nel buio senza
improvvisare e soprattutto perché trasportare un corpo in un luogo così esposto? Perché correre quel rischio? Perché scegliere un posto collegato al passato di Liliana? Come se qualcuno volesse lasciare un messaggio implicito, una traccia emotiva che solo chi la conosceva bene poteva interpretare. La tensione si sposta poi sui rapporti tra i due uomini. Visintin appare chiuso, distante, parla poco, si espone ancora meno. Quando gli viene chiesto della vita coniugale, risponde con frasi minime, quasi meccaniche, non si
sbilancia mai, non racconta mai nulla che possa rivelare emozioni profonde, a volte sembra più un testimone che un marito. Sterpin invece mostra un attaccamento che sorprende gli investigatori. ricorda ogni dettaglio, racconta ogni incontro, mostra fotografie con una cura quasi nostalgica. Eppure proprio questo coinvolgimento così intenso diventa un’arma a doppio taglio. È affetto sincero o un legame diventato troppo radicato? Le perizie psicologiche non possono dirlo con certezza, ma sollevano
dubbi. Nel frattempo un tema ritorna costantemente: la mancanza del diario di Liliana, quel diario che tutti dicono sia esistito, ma che nessuno trova. Per la procura è un elemento che potrebbe contenere la chiave dell’intera vicenda. I frammenti ritrovati in alcune borse, i biglietti strappati, le annotazioni sparse nei cassetti parlano di riflessioni che Liliana non aveva mai condiviso. Se il diario contenesse le parti più delicate, la sua assenza è un segnale enorme. C’è chi sostiene che
Liliana avesse confidato a una persona di voler cambiare qualcosa nella sua vita. Una decisione da prendere, una scelta difficile, una svolta. Alcuni credono che volesse allontanarsi da un legame che stava diventando soffocante. Ci sono momenti nelle indagini in cui il margine tra ciò che è stato detto e ciò che si è voluto tacere diventa così sottile da sembrare una lama. Nel caso Resinovic, questa lama si trova proprio tra le dichiarazioni ufficiali e i sussurri scambiati fuori dalle aule. Alcuni di questi sussurri, rimasti per
anni sospesi come polvere nell’aria, stanno ora prendendo forma concreta, non come prove definitive, ma come ombre che combaciano in modi troppo precisi per essere ignorate. Uno di questi sussurri riguarda una chiamata che nessuno ha mai voluto approfondire. Una telefonata arrivata al telefono fisso di casa vi sentì in poche ore dopo la scomparsa di Liliana. Una voce maschile, breve, secca. Chiedeva solo se Liliana fosse in casa. Non lasciò nome, non lasciò alcuna frase di contorno, solo quella domanda.
Non era un amico, non era un parente. Nessuno ha mai saputo dire chi fosse, ma il tempismo è agghiacciante. Perché qualcuno in quelle ore così delicate voleva sapere dove fosse Liliana? Non per salutarla, non per chiederle nulla, solo per sapere se fosse lì. come se il suo non essere in casa fosse parte di un’informazione già attesa. L’indagine però non si basa solo sui misteri telefonici, ci sono elementi fisici concreti che continuano a tormentare gli investigatori. Uno tra questi è la
famosa busta bianca trovata accanto al corpo di Liliana. Una busta che da sola non prova nulla, ma che nella sua posizione e nel suo contenuto suggerisce qualcosa di costruito. Troppo pulita, troppo intatta, troppo in contrasto con lo stato del bosco e del corpo, come se fosse stata aggiunta in un secondo momento o come se fosse stata portata lì con estrema attenzione, evitando ogni contaminazione naturale. Gli esperti parlano chiaro. Nel boschetto quella notte non era solo una persona. Il terreno racconta movimenti multipli,
impronte parziali che non possono essere attribuite a un solo individuo, rami spezzati a due altezze diverse, una traccia che suggerisce che il corpo sia stato spostato due volte, non una. Qualcuno ha fatto avanti e indietro, non solo in un unico passaggio. E questo dettaglio manda in frantumi l’ipotesi del gesto solitario. Ci sono anche testimonianze che hanno avuto un percorso travagliato. Una in particolare riguarda la presenza di un’auto scura nei pressi dell’ex ospedale psichiatrico
la notte della scomparsa. Un testimone giura di aver visto una persona scendere, guardarsi intorno e poi rientrare in macchina. Non denuncia nulla perché pensa che sia un passante. Solo anni dopo, rivedendo le immagini del boschetto al telegiornale, capisce che quel movimento coincide con l’orario in cui, secondo le nuove perizie, il corpo sarebbe stato spostato. Troppo tardi per essere utile, ma abbastanza preciso da riaprire domande mai fatte. Mentre queste informazioni emergono, gli investigatori scavano sempre più nella
vita emotiva di Liliana, una donna riservata, composta, educata. ma anche una donna che aveva iniziato a sentirsi stretta tra due mondi che non riusciva più a tenere separati. Un marito che viveva nel silenzio e nei rituali quotidiani, un amico che cercava di tenerla al centro di una costante attenzione, un equilibrio fragile che può crollare con niente. Le conversazioni recuperate dai telefoni mostrano un cambiamento inquietante. Nei mesi precedenti alla scomparsa Liliana aveva iniziato a ridurre i messaggi con
alcune persone e a intensificarli con altre. Un gioco di distanze e avvicinamenti che suggerisce un tentativo di ridefinire la propria vita. Alcuni messaggi sono stati eliminati, ma ciò che resta suggerisce una donna combattuta tra ciò che voleva e ciò che le era richiesto. Le testimonianze degli amici parlano di una Liliana più cupa, meno rilassata, con la testa altrove, capace di sorridere, ma con uno sguardo che tradiva un pensiero che la mordeva dentro. Un testimone racconta di una frase apparentemente
semplice: “A volte le persone si aspettano troppo da me.” Nessuno sapeva a cosa si riferisse, nessuno ha approfondito e oggi quella frase pesa come un macigno. Il ruolo di Visintin continua a essere avvolto da un silenzio che inquieta più delle parole. Non ha mai avuto scatti emotivi, non ha mai contestato in modo acceso nulla. risponde sempre in modo misurato, troppo misurato. C’è chi vede in questo difesa naturale. C’è chi vede un tentativo di non sbilanciarsi. C’è chi sospetta una
consapevolezza che non vuole emergere. Il suo silenzio è una porta chiusa che nessuno riesce a scardinare. Sterpini invece è l’opposto, è verbale, è dettagliato, è presente, racconta, spiega, ricorda ogni particolare come se ogni istante passato con Liliana fosse inciso nella memoria. Ma anche questa ricchezza di dettagli crea dubbi. È troppo precisa, troppo lucida, troppo pronta. Alcuni investigatori temono che in mezzo a quella precisione si nasconda la sovrapposizione involontaria tra verità e ricordo modellato nel tempo. Le
domande sulle dinamiche finali diventano soffocanti. Chi ha portato il corpo nel bosco? Quando? Come? Perché in quel punto preciso? Perché con quelle modalità e soprattutto perché dopo giorni? Perché non subito. È questa la parte che turba di più. Il corpo non è stato lì dal primo momento, le analisi tecniche lo confermano. È stato collocato nel boschetto solo in un secondo momento, quando le ricerche erano già state avviate. Le indagini sul caso Resinovic arrivano a un punto in cui la domanda non è più cosa sia
accaduto, ma cosa sia stato nascosto con più cura, perché ciò che emerge nelle ultime settimane è un quadro in cui le omissioni pesano quanto le prove reali e quando un’indagine si inceppa sulle omissioni significa che qualcuno ha lavorato molto bene per svuotare i cassetti giusti e lasciare intatti solo quelli che servivano a costruire una storia conveniente. Tra gli elementi più discussi c’è il tema degli ultimi movimenti di Liliana. La mattina della scomparsa sembra svanire in una bolla.
Non ci sono testimoni diretti, nessuna immagine chiara, nessun rumore segnalato dai vicini. Eppure la porta di casa non mostra segni di una fuga precipitosa. Niente disordine, niente tracce di una lite, nessun oggetto fuori posto. Questo porta gli investigatori a una teoria che all’inizio sembrava assurda. Liliana potrebbe non essere mai uscita spontaneamente. Qualcuno potrebbe averla convinta ad aprire. Qualcuno che conosceva, qualcuno di cui si fidava. È un’ipotesi che porta automaticamente
verso due persone. Sterpino Visintin, non perché ci siano prove definitive, ma perché sono gli unici che avevano con lei un legame sufficiente a varcare quella soglia senza destare sospetti. Il marito avrebbe avuto accesso naturale alla casa. L’amico si presentava spesso, anche fuori orario, ma questa possibilità non basta a definire ruoli. Apre solo un corridoio scuro pieno di scenari. Una delle domande più pesanti riguarda i telefoni. Gli investigatori sono convinti che non tutto ciò che è
stato recuperato dai dispositivi sia davvero tutto. Alcuni messaggi mancano, alcuni orari non combaciano, alcune conversazioni risultano spezzate, cresce la sensazione che qualcuno abbia ripulito parte delle comunicazioni nelle ore successive alla scomparsa. Non abbastanza da cancellare tutto, ma abbastanza da eliminare ciò che poteva diventare compromettente. Gli inquirenti sospettano che Liliana avesse scritto qualcosa di importante nei giorni precedenti, forse in un diario, forse in una nota, forse in un messaggio mai
inviato, ma il diario non si trova. E questo da solo è un dettaglio enorme. Nessuno fa sparire un diario per caso. Se davvero parlava di decisioni imminenti, di cambiamenti, di una vita che voleva rimettere in ordine, allora quel diario è una bomba che qualcuno non poteva permettersi di lasciare in circolazione. Le perizie tecniche sul boschetto diventano sempre più complesse. I luminol usati sugli oggetti rinvenuti non restituiscono una storia coerente con la narrazione iniziale. I tempi non coincidono. La degradazione
delle fibre non combacia con la versione dei fatti diffusa nei primi mesi. C’è qualcosa nell’esposizione del corpo agli agenti atmosferici che non torna. Il gelo avrebbe dovuto lasciare un certo tipo di segni, l’umidità altri ancora. Ma ciò che si osserva nella realtà suggerisce un’esposizione diversa, più breve, più recente. È la conferma indiretta che il corpo è stato spostato, non una volta, ma almeno due. Gli esperti parlano anche di un concetto che negli ambienti investigativi non piace
mai pronunciare, la messa in scena. Perché se c’è una cosa che appare evidente oggi è che qualcuno ha tentato di costruire una versione della storia, non una bugia improvvisata, una costruzione ragionata, organizzata, con dettagli pensati per indirizzare gli investigatori nella direzione più comoda, una direzione che non puntava né verso un estraneo né verso un’aggressione casuale. In questo scenario il ruolo emotivo dei protagonisti diventa centrale perché più emergono i dettagli più appare evidente
che la morte di Liliana è stata il risultato di una pressione psicologica crescente, di una tensione che si era accumulata nel tempo, una tensione fatta di parole non dette, richieste implicite, aspettative fuori controllo. Alcuni amici raccontano che Liliana viveva un conflitto intimo tra ciò che voleva e ciò che si sentiva obbligata a dare, un conflitto che le stava prosciugando le energie. Le dichiarazioni di Sterpin e Visintin non aiutano a sciogliere il nodo. Entrambi sembrano muoversi in un territorio dove
ogni parola pesa come piombo. Sterping continua a ripetere che la sua versione è coerente, ma quando gli viene chiesto di spiegare dettagli apparentemente insignificanti, risponde con un’attenzione quasi eccessiva, come se temesse che una virgola fuori posto potesse crollare tutto. Visintin invece si muove nel territorio opposto, chiude, riduce. Parla solo quando necessario, non si espone mai in modo netto. Nessun crollo emotivo, nessun gesto improvviso. Tutto è contenuto, troppo contenuto.
Un’altra svolta arriva quando gli investigatori decidono di scavare più a fondo nella rete di rapporti attorno Liliana. Amici di vecchia data parlano di incontri tra lei e Sterpin che non erano sempre così innocenti come venivano descritti. Non parlano di malizia esplicita, parlano di intensità, di una relazione che aveva superato il confine dell’amicizia senza però dichiararsi apertamente. Un legame grigio, un limbo emotivo, il tipo di rapporto che può diventare esplosivo quando una delle due parti decide di
tirarsi indietro. E questo porta alla teoria che gli investigatori stanno analizzando più seriamente. Liliana stava cambiando qualcosa nella sua vita. Forse voleva chiudere definitivamente un legame che era diventato troppo pesante. Forse voleva ricostruire il rapporto con il marito. Forse aveva capito che qualcuno stava chiedendo troppo. Un passo indietro in situazioni così cariche può diventare il detonatore di un equilibrio già instabile.