🔴 LILIANA RESINOVICH SHOCK: “SO CHI È STATO…” LA TRAGICA CONFESSIONE DELLA VICINA IN DIRETTA

La prima immagine che devi fissare nella mente è una strada apparentemente qualunque, illuminata da una mattina che sembra identica a mille altre. Un marciapiede deserto, qualche macchina parcheggiata in ordine quasi geometrico e quell’occhio vitreo di una telecamera di sorveglianza che registra senza capire, pronta a catturare l’ultimo frammento di una vita prima che il buio la inghiotta per sempre. Liliana Resinovic compare così, o almeno compare qualcuno che le somiglia, una sagoma che

cammina con passo tranquillo tra le 8:40 e le 8:50, ma ogni secondo di quel tragitto è un enigma camuffato da normalità, perché quei minuti non combaciano con niente, non con le testimonianze, non con i ritmi della sua routine e nemmeno con il luogo in cui il suo corpo verrà ritrovato 18 giorni dopo. È un tassello che non va al suo posto, un pezzo del puzzle che qualcuno ha limato fin troppo bene. Il volto della donna non si vede. La qualità delle immagini è pessima, sgranata come se un velo di sabbia digitale fosse

stato steso apposta per impedire qualsiasi certezza. Ciò nonostante gli abiti coincidono, la corporatura coincide e la postura somiglia in modo inquietante a quella di Liliana. Ma chi può dire che non sia una messa in scena, una sostituzione, un trucco orchestrato da qualcuno che sapeva come confondere e soprattutto perché farlo? Chi controllava quelle telecamere quel giorno, chi aveva accesso ai sistemi, che avrebbe potuto intervenire sugli orari senza destare sospetti. Il punto cruciale però arriva subito dopo, perché

se davvero quella donna era Liliana, allora c’è un buco nero che non si può ignorare. La sua vicina Gabriella percorre lo stesso tratto meno di 2 minuti dopo. Cammina perfino più veloce, ma non la vede. Non un saluto, non un’ombra, non un minimo indizio della sua presenza. È come se Liliana si fosse dissolta tra un fotogramma e il successivo e questo, volenti o noli, apre la porta a due ipotesi. La prima è inquietante, gelida come un colpo alla nuca. Qualcuno l’ha caricata in un’auto,

qualcuno che l’aspettava, qualcuno che conosceva le sue abitudini al millimetro e che forse era riuscito a convincerla a salire. La seconda ipotesi è meno scenografica, ma altrettanto devastante. Gli orari delle telecamere non sono sincronizzati. Basta un ritardo di pochi minuti per ribaltare l’intera sequenza degli eventi. Un errore banale che però in un’indagine come questa può trasformarsi in un abisso. Poi c’è la distanza tra l’ultimo avvistamento e il luogo del ritrovamento. 500 m. Una passeggiata di

pochi minuti, una distanza troppo breve perché nessuno si accorgesse di nulla e allo stesso tempo troppo lunga per poterla liquidare come una semplice fuga volontaria. Le buste nere che avvolgevano il suo corpo non sono un dettaglio marginale, sono una firma, una modalità che non appartiene a un gesto impulsivo, ma a un’azione calcolata. E quelle buste sulla testa non parlano di un suicidio, parlano di un messaggio, di un’intenzione precisa, di qualcuno che voleva cancellare ogni traccia e al

tempo stesso lasciare un simbolo, un muto avvertimento. Il comportamento di Liliana quella mattina aggiunge un’ulteriore ombra. Esce senza telefono. Lei che non si muoveva mai senza avvisare, senza lasciare un cenno, una parola, un riferimento. Abbandona tutto sul tavolo come se avesse smesso per un momento di essere se stessa. La domanda è inevitabile. Perché ha ricevuto una chiamata prima di lasciare casa? Qualcuno l’ha turbata, qualcuno l’ha indotta a uscire in fretta, oppure si è

fidata di qualcuno che non avrebbe mai dovuto avvicinare? Il racconto di Gabriella pesa come un macigno perché lei conosceva ogni abitudine di Liliana. Sapeva quando usciva, quanto ci metteva, quando decideva di fare una passeggiata più lunga del solito. Eppure quella mattina tutto sembra tagliato con un coltello. Nessuna traccia, nessuna presenza, nessun rumore. Non solo non l’ha vista, ma non ha nemmeno percepito una presenza nell’aria. È come se in quei pochi minuti si fosse verificato

qualcosa di rapidissimo e al tempo stesso pianificato nei dettagli. Le voci in città fanno il resto. C’è chi dice di averla vista parlare con qualcuno giorni prima, chi la ricorda insolita, pensierosa, distratta dalle sue stesse emozioni. Ma i ricordi della gente sono fragili. A volte sono contaminati dalla voglia di essere parte di un mistero, altre volte dalla paura di esserlo davvero. La verità è che Liliana viveva un periodo complicato, ma non al punto da prendere decisioni impulsive. amava

le sue abitudini, la sua routine, i suoi passaggi sicuri. Il boschetto in cui è stata trovata non è un luogo casuale, è vicino, troppo vicino. È nascosto quel tanto che basta per nascondere un corpo, ma allo stesso tempo è raggiungibile senza difficoltà. Chiunque l’abbia portata lì sapeva come muoversi, sapeva dove andare, sapeva come far perdere le tracce e soprattutto aveva fretta di togliere Liliana da dove era. Ci sono dettagli che all’inizio sembrano insignificanti, piccoli graffi sulla

superficie di una storia già complessa, ma quando li osservi da vicino, quando li rimetti al loro posto come tessere di un mosaico che qualcuno ha cercato di spezzare, allora capisci che niente è davvero casuale. Una delle prime domande che dovremmo farci è perché Liliana abbia lasciato a casa il telefono. Non è solo un oggetto mancante, è una parte della sua identità quotidiana. In un mondo in cui il cellulare è un’estensione della persona, smettere di portarlo con sé significa due cose. O

sei convinta che ti basti una passeggiata breve e tranquilla o sai che non ti servirà. E nel secondo caso qualcuno deve avertelo fatto credere. Il telefono diventa un simbolo dell’isolamento in cui qualcuno ha voluto rinchiuderla. Una donna tranquilla, metodica, abituata a muoversi con sicurezza nei suoi percorsi, non esce all’improvviso senza lasciare un cenno e non esce senza dire almeno a un familiare o a un’amica dove sta andando. I gesti di Liliana quella mattina hanno la consistenza inquietante

di un comportamento non suo. È come se seguisse un filo invisibile, come se qualcosa o qualcuno avesse già deciso la sua direzione. Poi c’è una domanda che per troppo tempo è stata ignorata. Com’è possibile che una persona ripresa dalle telecamere scompaia nel nulla in un tratto di strada che chiunque percorre in pochi minuti? Non stiamo parlando di un’area isolata, non di un bosco fitto o di una zona priva di passaggi. Parliamo di una parte viva della città con finestre affacciate, con cittadini

abituali, con un traffico minimo ma costante. Eppure di Liliana non resta alcuna traccia dopo l’ultimo fotogramma delle 8.50. È come se una mano l’avesse afferrata trascinandola fuori dalla scena prima che qualcun altro potesse accorgersene. Le testimonianze aumentano il senso di straniamento. Alcune persone dicono di aver percepito movimenti, altre raccontano di aver notato auto che rallentavano più del necessario, altre ancora ricordano rumori sordi che non avevano dato peso. Il problema è che

questi racconti emergono a distanza di tempo, filtrati dalla paura, dalla memoria che gioca scherzi e da quella sensazione di colpa di chi teme di aver visto qualcosa, ma non ne ha compreso il valore. Perché succede sempre così? La verità si nasconde negli occhi di chi guarda senza capire. Il luogo in cui Liliana viene ritrovata è uno spazio anomalo, non è un punto completamente isolato, ma non è nemmeno un luogo che si raggiunge per caso. Per arrivarci devi sapere dove vai. Devi conoscere quel boschetto, devi conoscere gli

orari, devi sapere che in quella fascia temporale nessuno passerà. Devi avere una sicurezza che non appartiene a un improvvisato e poi devi avere una calma spaventosa perché chi ha portato Liliana lì non ha agito di fretta, ha sistemato il corpo, ha avvolto la testa in sacchetti, ha usato buste nere, ha lasciato intorno un silenzio innaturale. Questi dettagli non parlano di un gesto impulsivo, parlano di qualcuno che voleva cancellare Liliana dal mondo, ma allo stesso tempo inviare un messaggio.

un messaggio di potere, forse o un modo per far capire che quanto accaduto non è frutto del caso. Gli investigatori sono rimasti sorpresi dall’assenza totale di disordine nella zona del ritrovamento. Nessun segno evidente di colluttazione, nessuna traccia di fuga, nessuno spostamento caotico. È come se la scena fosse stata costruita con cura. Una costruzione che fa pensare a un legame emotivo psicologico tra la vittima e chi l’ha portata lì. In tanti casi simili, il modo in cui un corpo viene lasciato

dice molto più di quanto raccontino le parole. E qui il corpo sembra essere stato collocato in una posizione che richiama una specie di rituale, non una posa casuale, non un abbandono disordinato. La città ha iniziato a sussurrare quasi subito. Le voci si diffondono quando c’è un vuoto e questa storia ne è piena. Chi dice di aver visto Liliana parlare con una figura sconosciuta nei giorni precedenti? Chi giura che la donna fosse turbata come se portasse dentro un peso che non riusciva a condividere? C’è persino chi sostiene

di averla sentita discutere a bassa voce con una persona che non riconosceva. Tutti i racconti privi di riscontri solidi, ma tutti coerenti con qualcosa che col tempo ha iniziato a delinearsi. Liliana non era tranquilla, aveva una tensione addosso, la sentiva e probabilmente la temeva. Il rapporto con alcune persone della sua cerchia è stato rianalizzato. Ci sono telefonate che non tornano, ci sono silenzi sospetti, ci sono contatti improvvisi interrotti senza un motivo apparente. In ogni caso di scomparsa o omicidio esiste sempre

una linea sottile che collega la vittima a chi ha avuto un ruolo nella fine. A volte quella linea è evidente, a volte è invisibile agli occhi distratti di chi indaga, ma esiste sempre, basta trovarla. La ricostruzione del percorso di Liliana ha portato a un altro problema. per arrivare dal punto dell’ultima ripresa al boschetto del ritrovamento, avrebbe dovuto impiegare pochi minuti. Eppure la dinamica del suo arrivo in quel luogo rimane un buco nero. Nessuno la vede, nessuno sente, nessuno nota un movimento anomalo.

Possibile che una donna scompaia nel cuore della città come se fosse stata risucchiata da un varco? O forse era su un veicolo, forse chi la stava cercando l’ha intercettata lungo il tragitto. Tutto indica un incontro voluto o imposto. Ci sono storie che si sgretolano nei dettagli e questa è una di quelle. Ogni volta che guardi da vicino un frammento della vicenda di Liliana Resinovic, scopri un graffio nascosto sotto la vernice. Il racconto ufficiale si incrina e qualcosa di più cupo emerge da sotto la superficie. Per

capire davvero cosa è successo, bisogna tornare ai minuti immediatamente successivi all’ultima immagine catturata. Quello è il vuoto più inquietante. Quello è il buio in cui tutto può essere accaduto. Gli investigatori hanno sempre detto che la donna ripresa potrebbe essere Liliana. Ma nessuno lo ha mai affermato con certezza. E se quella figura fosse stata messa lì per creare un’illusione? Se qualcuno avesse costruito un percorso fasullo per dare un’apparenza di normalità a qualcosa che di normale non

aveva niente, le telecamere possono essere manipolate, gli orari possono essere alterati, i fotogrammi possono essere sostituiti, non serve una regia sofisticata, basta una modifica di pochi minuti per invertire la logica degli avvenimenti. E quel dettaglio della mancata coincidenza tra Liliana e Gabriella non è un semplice incidente temporale. È una lama affilata puntata dritta al cuore del mistero. Due percorsi identici, due donne che si conoscono, pochi secondi di distanza e nessun incrocio, una probabilità a quasi

nulla, o meglio, una probabilità a quasi nulla se tutto fosse accaduto spontaneamente. Ma se qualcuno stava aspettando Liliana, se qualcuno è intervenuto in quel punto cieco, tra un fotogramma e il successivo, allora ogni cosa cambia e quella scena assume un significato completamente diverso. Ci sono ipotesi che nessuno vuole affrontare perché costringono a guardare un abisso. Una di queste è che Liliana fosse seguita non per caso, non da uno sconosciuto, da qualcuno che sapeva dove si sarebbe trovata e quando. Le persone

che la conoscevano bene hanno raccontato che lei aveva delle abitudini rigide, ripetitive, era prevedibile e la prevedibilità è l’arma preferita da chi vuole avvicinare la propria vittima senza destare sospetti. Un’altra ipotesi ancora più sinistra è che Liliana avesse un appuntamento, qualcosa o qualcuno che la tirava fuori casa senza telefono, senza protezioni, senza un piano alternativo. Il problema non è tanto se l’appuntamento esistesse, ma con chi? Perché chiunque fosse scomparso dal

quadro. Non un messaggio, non un indizio, non un nome pronunciato da nessuno, solo un vuoto netto costruito con una precisione chirurgica. Il comportamento di Liliana nei giorni precedenti resta una delle chiavi di lettura più delicate. Alcune testimonianze parlano di un cambio di umore, di una certa tensione negli occhi, di frasi lasciate a metà come se avesse un pensiero ossessivo che non riusciva a esprimere. Nessuno allora aveva compreso quel disagio. Nessuno aveva percepito che dietro ai suoi gesti

misurati si nascondeva una tempesta. E quando una persona abituata alla routine inizia a cambiare ritmi, quando il comportamento quotidiano perde la sua coerenza, qualcosa sta per rompersi. Le indagini hanno sottolineato anche un altro particolare. Liliana aveva iniziato a ridurre alcune comunicazioni. Era meno presente, come se stesse proteggendo un segreto o come se avesse paura di essere osservata. Questo tipo di atteggiamento è tipico di chi percepisce un pericolo imminente. È l’istinto naturale di chi tenta di

isolare il problema, convinto di poterlo gestire da sola, ma l’isolamento è il terreno preferito da chi vuole colpire senza lasciare tracce. Poi c’è il luogo del ritrovamento, un punto dove non ci si imbatte per caso, ma dove qualcuno conduce la vittima perché sa che lì nessuno disturberà. Questo boschetto è diventato un simbolo, il teatro muto di un’azione che non appartiene al caos. Se ci fosse stato panico, fretta, improvvisazione, il corpo sarebbe stato lasciato in modo disordinato, buttato

tra i rami. Invece era adagiato, sistemato, una scelta che stona con la brutalità del resto, come se ci fosse un legame emotivo o un gesto simbolico che solo l’autore del fatto comprende. E poi ci sono i sacchetti, buste nere, non uno, ma due, uno attorno alla testa, uno intorno al corpo. Una modalità che parla di volontà di annullamento, come se la persona responsabile volesse cancellare il volto, cancellare l’identità, cancellare ogni traccia umana. Questo tipo di dettaglio ha un significato

preciso in criminologia. indica un rapporto complesso tra vittima e carnefice, un misto di rabbia e controllo, di rifiuto e possesso. È un linguaggio muto, ma eloquente. Chi indagava all’inizio ha lasciato aperta anche la pista del suicidio, ma il suicidio non parla così, non si presenta con sacchetti, non si presenta con buste avvolte attorno al corpo, non si presenta così lontano da casa e così vicino a un punto in cui si può essere trascinati senza essere visti. Non si presenta con una scena che sembra

costruita. La cifra più inquietante è il silenzio, perché ogni persona vicina a Liliana ha detto la stessa cosa. Nessuno aveva idea di alcun conflitto, di alcun litigio, di alcuna minaccia. Ma questo non significa che non ci fosse, significa solo che lei non ne parlava. Il silenzio è l’ultimo scudo di chi ha paura di essere frainteso o di peggiorare la situazione. Il silenzio è una protezione fragile che spesso cede proprio quando non dovrebbe. Dall’altra parte ci sono voci che emergono col

passare del tempo. Racconti di persone che pensano di aver visto Liliana in compagnia di qualcuno, nomi accennati a mezza voce, figure che appaiono e scompaiono nel giro di pochi giorni. Ci sono punti in questa vicenda che sembrano cuciti apposta per confondere, come se qualcuno avesse intrecciato fili di verità e fili di falsità fino a trasformarli in un’unica matassa indecifrabile. Più si tenta di separare ciò che è reale da ciò che è costruito, più ci si accorge che il quadro non è sbagliato per caso, è sbagliato per

intenzione. La storia di Liliana Resinovic non scricchiola nei grandi colpi di scena, ma nei dettagli che non combaciano, nei silenzi che arrivano al momento sbagliato, negli orari che sembrano calibrati con precisione e al tempo stesso impossibili. Una domanda cruciale torna sempre, come un eco che non smette di risuonare. Perché nessuno ha visto Liliana nei pochi minuti successivi al suo ultimo presunto avvistamento? Non parliamo di un intervallo di ore, ma di un fazzoletto di tempo quasi ridicolo. Una ventina di

minuti in una zona frequentata, con passaggi, con persone che si muovono, con finestre che si affacciano sulla strada. Non esiste un luogo urbano in cui qualcuno possa svanire senza lasciare neanche un movimento sospetto, neanche un’ombra fuori posto, a meno che quel qualcuno non sia stato fermato prima che potesse proseguire. E allora entra in scena la possibilità di un veicolo, un’auto che si accosta, che apre la portiera al momento giusto e che in meno di un secondo annulla ogni distanza. Può essere stato un volto

familiare ad attirarla, un gesto riconoscibile che la convinta a salire, oppure un’imposizione improvvisa, decisa con una violenza che non lascia il tempo di reagire. Le telecamere non mostrano nulla di questo o forse lo mostrano, ma non nel modo corretto. Questa è la differenza tra un errore e una manipolazione. L’errore è casuale, la manipolazione è scelta. Quando si analizzano i tempi delle registrazioni emerge qualcosa di ancora più sospetto. Le telecamere della zona non sono sincronizzate tra loro. Alcune hanno un

ritardo di pochi minuti, altre sembrano avere un anticipo che nessuno ha mai spiegato. Una situazione che potrebbe essere normale in altre circostanze, ma che qui diventa un terreno fertile per chi vuole costruire una narrazione alternativa. Se un’immagine è in anticipo e un’altra in ritardo, basta poco per alterare la sequenza degli eventi. Basta poco per rendere reali movimenti che non sono mai avvenuti. Uno degli aspetti che ha colpito di più gli investigatori indipendenti è il comportamento delle persone vicine a

Liliana. Nessuno ricorda una discussione, nessuno ricorda una lite. Eppure vari conoscenti hanno ammesso che negli ultimi giorni la donna sembrava essere immersa nei pensieri, distratta da qualcosa che non riusciva a condividere. Un dettaglio sottovalutato ma significativo. Spesso chi percepisce un pericolo imminente non denuncia, ma cambia. Cambia abitudini, cambia gesti, cambia sguardi. Non dice cosa sta succedendo, ma lo fa capire senza volerlo. Se questo è vero, allora Liliana stava vivendo un conflitto

interiore che non poteva o non voleva spiegare e quel conflitto potrebbe averla resa vulnerabile a chi aveva interesse a manipolarla o controllarla. La vulnerabilità è una porta aperta e chissà come attraversarla non lascia mai segni evidenti del proprio passaggio. Il boschetto in cui è stata ritrovata non è un luogo neutro, è un punto che sembra scelto, troppo isolato per attirare attenzione immediata, troppo vicino per essere davvero lontano, un confine tra visibile e invisibile. Lì il corpo è

stato collocato con un’attenzione che non ha nulla a che vedere con un gesto impulsivo. Chi ha posato Liliana in quella posizione non aveva paura di essere sorpreso e soprattutto sembrava conoscere il posto. Questo dettaglio non può essere ignorato. Il luogo del ritrovamento parla quasi più di chi ha agito che di ciò che è accaduto. Le buste nere usate per avvolgerla non sono materiale qualunque, sono sacchi robusti da giardino o da cantiere, non le comuni buste da casa. Questo implica che chi li

ha utilizzati non li aveva per caso. Erano parte di un piano. Quando una persona decide di rapire o uccidere improvvisando, non si presenta con materiali preparati. Qui invece ogni cosa sembra selezionata con attenzione. Le buste, i punti dove stringere, la modalità per avvolgere la testa. Non è un gesto casuale, non è un gesto emotivo, è qualcosa che richiede sangue freddo e lucidità. E poi c’è la sistemazione del corpo. Il modo in cui Liliana è stata lasciata, avvolta e collocata è un tratto che molti analisti

definiscono come tipico di un rapporto complesso tra vittima e responsabile. Non una semplice eliminazione, non un abbandono in un momento di panico, ma un atto che sembra voler comunicare qualcosa. Una commistione di brutalità e cura posticcia, un gesto malato che appartiene a chi vive un legame psicologico distorto. La città ha reagito in modo strano, non con il caos, non con il panico, ma con una calma innaturale, una calma che nasconde paura, una calma che spinge le persone a evitare l’argomento. Molti triestini

preferiscono parlare di qualsiasi cosa piuttosto che di questo caso, come se il solo nominarlo potesse attirare qualcosa di pericoloso. C’è chi sostiene che alcuni conoscenti avessero paura di parlare perché temevano ritorsioni. C’è chi dice che qualcuno abbia ricevuto telefonate anonime. C’è chi ha riferito movimenti sospetti nei giorni successivi al ritrovamento. Ma nessuno ha mai avuto il coraggio di mettere per iscritto queste informazioni. Quando si arriva all’ultimo tratto di questa storia, la

sensazione è che ogni passo affondi in un terreno che qualcuno ha reso volutamente instabile. Non importa da quale lato si tenti di guardare il caso di Liliana Resinovic, ci si trova sempre davanti a una fitta trama che sembra intrecciata per confondere, per scoraggiare, per far perdere il filo. Ma se c’è una cosa che questa vicenda insegna è che la verità non muore mai. Può essere nascosta, soffocata, insabbiata, ma resta lì sempre nello stesso punto. E aspetta, le domande finali non sono meno inquietanti di

quelle iniziali. Chi ha portato Liliana in quel boschetto? Chi ha deciso che doveva sparire in una mattina che sembrava identica alle altre? Chi ha creato un percorso impossibile, costruito su orari che non combaciano, su riprese che non permettono di vedere un volto, su un tempo che si dilata e si restringe come se qualcuno avesse messo le mani sugli ingranaggi. Non si tratta di fantasia, non si tratta di interpretazioni pessimiste, basta osservare i fatti con freddezza. Il comportamento di Liliana non corrisponde

a quello di una persona che vuole allontanarsi volontariamente, non prende il telefono, non avverte nessuno, non prepara nulla, esce come se andasse a percorrere pochi passi, non porta con sé neanche una borsa, un gesto troppo leggero, troppo disarmato. Non è la scelta di un adulta che vuole scomparire, è la scelta di chi esce pensando di rientrare subito e in quelle condizioni chiunque avrebbe potuto avvicinarla. Bastava comparire al momento giusto, bastava un volto conosciuto, bastava una frase capace di

spezzare il flusso normale dei suoi pensieri. Gli esseri umani non sono imprevedibili come si crede, sono abitudinari e chi conosce le loro abitudini ha un vantaggio enorme. Il tratto di strada tra l’ultima ripresa e il boschetto è breve, così breve che qualunque persona rapita, anche se in stato di confusione, avrebbe potuto gridare, scalciare, attirare attenzione. Ma non risulta nulla di tutto questo. Nessuno sente urla, nessuno riferisce movimenti bruschi, nessuno vede Liliana oltre quel fotogramma incerto, come se

fosse stata portata via in silenzio, come se l’intero tragitto fosse avvenuto in pochi secondi. Una rapidità che non appartiene al caso, ma a un’azione organizzata. Gli esperti lo ripetono da anni. Quando un corpo viene trovato in condizioni che mescolano ordine e brutalità, significa che chi ha agito aveva un legame disturbante con la vittima. Non è un assassino improvvisato, non è un gesto impulsivo, è un atto che risponde a una necessità personale e quella posa, quel modo di avvolgerla, quella cura disturbante con

cui è stata lasciata lì parlano di un rapporto che nessuno ha mai voluto illuminare. Ci sono testimonianze rimaste in ombra. Gente che dice di averla vista nervosa. Gente che sostiene di aver notato un uomo che la osservava a distanza nei giorni precedenti. Gente che ha pensato che Liliana stesse vivendo qualcosa che non riusciva a dire. In molti casi le persone percepiscono il pericolo senza esserne consapevoli. Avvertono che qualcosa le osserva, ma non lo interpretano come una minaccia. Liliana potrebbe aver vissuto

esattamente questo, una sensazione di pressione crescente e la pressione è l’anticamera del collasso, ma il silenzio della città è la cosa più pesante da affrontare, un silenzio che non appartiene all’indifferenza, ma alla paura. Trieste non è una città che dimentica, è una città che custodisce e quando custodisce troppo lo fa per proteggersi da qualcosa o da qualcuno. Nessuno parla apertamente, ma tutti hanno la percezione che intorno Liliana ci fosse un’ombra più grande, un’ombra

che non riguarda solo lei, ma dinamiche più profonde, legami, relazioni, fragilità, rapporti personali che non sono mai stati analizzati fino in fondo. Ci sono persone che potrebbero sapere molto più di quanto hanno raccontato, persone che hanno incrociato Liliana in momenti cruciali, persone che hanno osservato cambiamenti improvvisi nei suoi comportamenti. Ma queste voci si sono sempre fermate sulla soglia della verità. Una frase iniziata e poi interrotta, una confidenza mai completata, una telefonata rimandata,

una dichiarazione modificata, tutti indizi che indicano una resistenza interna, come se ci fosse la certezza che parlare significhi pagare un prezzo troppo alto. E poi ci sono gli oggetti mancanti, il telefono, qualche documento, alcuni effetti personali che la donna aveva sempre con sé, oggetti che non sono mai stati ritrovati. Spesso chi agisce con metodo sottrae ciò che può rivelare un movente. Ci sono criminali che lasciano tracce senza accorgersene e poi ci sono quelli che ripuliscono, che rimuovono ciò che non

deve essere scoperto, che selezionano cosa la scena deve mostrare e cosa no. In questo caso, tutto ciò che avrebbe potuto spiegare la mattina di Liliana sembra dissolto, come se fosse stato cancellato prima ancora che qualcuno potesse afferrarlo. Il depistaggio è una parola che molti evitano, è comoda da pronunciare, ma pesante da dimostrare. Tuttavia, quando ogni elemento porta nella stessa direzione, ignorarlo diventa ingenuo. gli orari incoerenti, le immagini incomplete, gli intervalli impossibili, le testimonianze

discordanti, le incongruenze negli incroti, le mancate coincidenze. Tutto forma un disegno che non appartiene al caos, appartiene alla manipolazione.

Related Posts

DEATH PROBE 

Sean Little gangland murder probe latest as gardai detail ‘some progress’ & ‘defined line of inquiry’ in killers hunt Detectives believe he was lured to the scene…

Une retraitée secoue le plateau en direct : “La démocratie française est une illusion !” Son cri du cœur dénonce une “dictature collégiale bourgeoise” déconnectée des réalités citoyennes, révélant une fracture profonde entre élus et population. Alors que ses mots résonnent dans l’air, un silence lourd s’installe, laissant présager un tournant décisif pour la politique française. Sa prise de parole audacieuse pourrait-elle être le déclencheur d’un grand mouvement pour rétablir la véritable voix du peuple ?

Uпe retraitée fait seпsatioп eп direct, remettaпt eп qυestioп l’esseпce même de la démocratie fraпçaise. Daпs υпe iпterveпtioп aυdacieυse, elle déпoпce υп système qυ’elle qυalifie de “dictatυre…

“Je me suis bien cogné la tête” : après sa chute durant le Téléthon, Sophie Davant donne de ses nouvelles

Plus de peur que de mal pour Sophie Davant. Visage incontournable du petit écran depuis plusieurs décennies, l’animatrice était de retour sur France Télévisions, vendredi 5 décembre…

Potreseni Mark izjavio: “Pukli su mi snovi!” 💔😢 Hoće li imati snage nastaviti do kraja?!

Potreseпi Mark izjavio: “Pυkli sυ mi sпovi!” Hoće li пastaviti do kraja?!”Dobar smo tim, ali mislim da sυ пjih četiri all star”U Markovom timυ пašli sυ seSelma,…

Britain Reaches a Boiling Point as Public Outrage Surges and Westminster’s Silence Fuels Even Greater Frustration Across the Country

Britoпs have beeп filmiпg themselves travelliпg to beaches iп Fraпce aпd ‘destroyiпg’ small boats – gaiпiпg thoυsaпds of views iп the process Saпya Bυrgess is aп award-wiппiпg joυrпalist…

“We’re in the Dark”—East Sussex MP Stands by Locals Over Migration Housing Plans

Aп East Sυssex MP has pledged her sυpport for resideпts erυptiпg iп fυry at Laboυr plaпs to hoυse hυпdreds of migraпts iп their local village. Depυty Speaker…

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *